Legio Linteata

I Sanniti furono guerrieri valorosi e ben organizzati. Come tanti popoli, allora ed ancora oggi, avevano nel loro esercito un certo numero di combattenti che formavano un gruppo scelto di guerrieri. Era la Legio Linteata, una devotio a divinità dell'Olimpo sannita che, dopo una particolare cerimonia sacra, diventava una casta di guerrieri votata al sacrificio estremo pur di difendere il proprio popolo. Sulla legione e sulla cerimonia che la consacrava, ci sono giunte solo le testimonianze di Tito Livio nei suoi Annales, ma molti sono i reperti archeologici venuti alla luce in questi ultimi anni che in parte avvallano ciò che Livio ha scritto.
La narrazione del rito sacrale avvenuto nel 293 a.C. ad Aquilonia per costituire la "Legio Linteata", viene così da Livio narrata:

...alla guerra questi (i Sanniti) s'erano preparati con lo stesso impegno e con gran dovizia di fulgide armi; e ricorsero anche all'aiuto degli dei, giacché i soldati erano stati iniziati alla milizia prestando il giuramento secondo un antico rito, e s'era fatta una leva per tutto il Sannio con una nuova legge, in virtù della quale chi fra i giovani non fosse accorso alla chiamata dei comandanti, e chi si fosse allontanato senza il loro ordine, doveva essere consacrato alla vendetta di Giove. Poi tutto l'esercito ricevette l'ordine di radunarsi ad Aquilonia. Vi si raccolsero circa 60.000 uomini, il fiore delle milizie ch'erano nel Sannio.

L'AREA DEL GIURAMENTO DEI LINTEATI

Ivi, quasi nel centro dell'accampamento, si racchiuse tutt'intorno con tramezzi di graticci e plutei e si coprì con drappi di tela uno spazio che s'estendeva al massimo per duecento piedi, ugualmente in ogni direzione.
Ivi si offrì un sacrificio secondo quanto s'era letto in un vecchio libro linteo; il sacerdote era un certo Ovio Paccio, un uomo di età avanzata, il quale affermava ch'egli ricavava tale sacro rito da un antico cerimoniale dei Sanniti, cui s'erano un tempo attenuti i loro antenati, quando avevano preso segretamente la decisione di togliere Capua agli Etruschi.

 

Compiuto il sacrificio, il comandante fece chiamare da un messo i più nobili per stirpe ed imprese; essi vennero introdotti ad uno ad uno. Oltre agli altri sacri apparati, atti ad infondere nell'animo il timore religioso, v'erano anche nel centro del recinto, tutto coperto all'intorno, are e vittime uccise, e v'erano schierati in giro guerrieri con le spade sguainate. Il giovane veniva condotto davanti agli altari più come vittima che come iniziato, e gli si faceva giurare che non avrebbe rivelato ciò che avesse visto o sentito in quel luogo. Lo costringevano a giurare secondo una formula terribile fatta apposta per invocare la maledizione su di sè, sulla famiglia e sulla sua stirpe, se non fosse andato a combattere là dove i comandanti lo avessero condotto e, se fosse fuggito dal campo di battaglia, oppure avesse visto fuggire un altro e non l'avesse immediatamente ucciso.

Alcuni che s'erano dapprima rifiutati di prestare tale giuramento furono trucidati attorno agli altari; i loro cadaveri, abbandonati in mezzo all'ammasso delle vittime, servirono d'esempio agli altri perché non si rifiutassero. Quando i più ragguardevoli tra i Sanniti si furono impegnati con tale imprecazione, il comandante ne designò dieci, e ad essi fu ordinato di scegliersi ognuno il proprio compagno, finché avessero raggiunto il numero di 16.000. Quella legione fu chiamata "linteata" dalla copertura del recinto in cui era stata consacrata la nobiltà; a questi guerrieri furono date fulgide armi ed elmi con pennacchio perché si distinguessero da tutti gli altri. V'era poi un altro esercito, di poco più di 20.000 uomini, che non sfigurava di fronte alla legione linteata nè per aspetto fisico dei soldati, nè per la gloria, nè per le armi. Questo contingente di uomini, che rappresentava il cuore delle milizie, s'accampò nei pressi di Aquilonia (1).

La Legio Linteata appare anche nella descrizione di un altro avvenimento narrato negli Annales, accaduto però nel 309 a.C.
I guerrieri sanniti vengono descritti con armi d'oro e d'argento:

Due erano gli eserciti: gli scudi del primo li cesellarono in oro, quelli del secondo in argento; la forma dello scudo era la seguente: più larga la parte superiore, da cui son protetti il petto e le spalle, e orizzontale in cima; più appuntito in basso, per lasciare libertà di movimenti.
A protezione del petto avevano una corazza a maglia, e la gamba sinistra era riparata da uno schiniere. Elmi con paragnatidi e pennacchio, per mettere maggiormente in evidenza la statura gigantesca. Tuniche variopinte ai soldati con lo scudo dorato, a quelli con lo scudo argentato di candido lino (2).

 

In effetti Livio descrive queste particolari schiere con armi ed atteggiamenti troppo gladiatori, forse influenzato dalle gesta e probabilmente dalla figura di quei Sanniti che ai suoi tempi erano considerati i più abili e crudeli guerrieri d'arena.
Ma è proprio il ripetere della descrizione che Livio fa della Legio Linteata e della cerimonia sacra officiata per costituirla, al di là del fatto che siano pure invenzioni atte a glorificare lo sforzo fatto dai romani per annientarla, ad evidenziare la possibilità che questo corpo particolare di equites possa essere realmente esistito.

NOTE

(1) TITO LIVIO - Ab Urbe Condita - X, 38. Traduzione di M. Scandola.

(2) Livio, op. cit. IX, 40. L'annalista romano descrive i legionari linteati come avrebbe descritto un guerriero della nobiltà romana. Infatti fa indossare ai Sanniti un tipo di corazza, la "Lorìca Hamata", una cotta di maglia di ferro che, nel III secolo a.C, soltanto un graduato romano poteva permettersi, visto che occorrevano delle tecniche molto particolari e costose per costruirla. Questo tipo di cotta sarà indossata da tutti i soldati romani solo dalla metà del II secolo in poi, sostituita intorno al I secolo dalla "Lorìca Segmentata", destinata a divenire il simbolo del soldato romano. E' più probabile quindi che la corazza dei "Linteati" sia stata fabbricata sul tipo di quelle usate intorno alla fine del IV secolo a.C. dalle popolazioni dell'Italia meridionale che, a contatto con le numerose colonie greche nel sud della penisola, vennero influenzate non solo nell'arte figurativa, come viene testimoniato dagli innumerevoli oggetti d'uso quotidiano ritrovati nelle sepolture, ma anche in campi più specifici come quello dell'armamento militare. In alcune pitture tombali di Paestum viene raffigurata proprio questo tipo di corazza, accompagnata da affreschi raffiguranti schinieri ed elmi con pennacchi. La corazza in questione potrebbe discostarsi dalla tipica protezione italica costituita da dischi di bronzo in uso intorno al V secolo a.C.

Tempo fa, nel deserto della Tunisia, una spedizione archeologica ebbe la fortuna di localizzare una antica fortificazione a Ksour es-Saf e, dopo opportune analisi storiche e topografiche, si ritenne di aver identificato uno dei luoghi dove Annibale e le sue truppe si erano stabiliti dopo il ritorno dalla campagna bellica d'Italia. Tra i vari ritrovamenti avvenuti durante gli scavi archeologici succedutisi alla scoperta, destò molto stupore il rinvenimento di una corazza di bronzo dorato finemente lavorata. Questa si presentava ben conservata in ambedue le valve (3), essendo stata ritrovata in uno strato di sabbia compatto avvolta dentro a quello che rimaneva forse di un drappo policromo; i fermagli delle fibule metalliche che univano le due valve hanno la forma a testa di toro e le decorazioni della figura centrale sono costituiti da rami di cerro e da ghiande.

La figura centrale, una testa con elmo con pennacchi, porta al collo una collana di ghiande come quella cesellata, ma di dimensioni maggiori, posta nella parte superiore della valva anteriore.
Le decorazioni presenti sulla corazza sono tutte simbologie indubbiamente ricollegabili al popolo sannita ed alla sua religione. Il toro era il vessillo della maggior parte dei "touti" sanniti, a parte gli Irpini che avevano il lupo (irpus) come animale guida.La figura del cerro (quercus cerris) era molto cara ad essi: infatti rappresentava la forza che scaturiva potente dalla terra.

 

Un'altra tipica rappresentazione di questa forza era la figura della ghianda, che ricordava sinteticamente la pianta.In effetti, presso i Sanniti, il simbolo del cerro era collegato al culto di Ercole, divinità dell'Olimpo italico venerata in molti santuari dell'antico Sannio.
A questo punto è lecito chiedersi se è possibile che una così particolare corazza potesse appartenere ad un generico soldato di Annibale oppure non sia invece appartenuta ad un guerriero sannita, evidentemente al seguito del condottiero cartaginese. E' da considerare che Annibale, nella discesa per la conquista dei territori della penisola, meditò di adottare una strategia militare particolare, basata sulla speranza (sic!) di far insorgere le popolazioni italiche sottomesse dai romani in modo da creare un compatto coinvolgimento dei popoli indigeni contro la dominazione dell'Urbe. Invano aveva sperato nell'aiuto soprattutto delle popolazioni di lingua osca, conoscendo bene quale rapporti erano esistiti tra gli oschi ed i latini fino a settant'anni prima.

Invece nella battaglia di Cannae del 216 a.C. furono proprio i Sanniti, ormai inclusi nelle file militari di Roma, a dare filo da torcere ad Annibale, ed in particolar modo nei pressi di Geronium dove il "magister equitum" dei Fabii, M. Minucio Rufo, fu salvato dalla disfatta proprio per l'intervento delle schiere sannite comandate dal pentro Numerio Decimio.

Ma dopo la rovinosa disfatta romana di Cannae, qualcosa accadde tra le schiere degli Italici che, dopo l'accordo tra la città di Capua ed Annibale, passarono deliberatamente non proprio dalla parte del cartaginese ma ad uno stato di cosciente astensione da molte di quelle vicende belliche. Tra i Sanniti solo i Caudini e gli Irpini defezionarono da Roma; i Pentri non lo fecero, ma qualcuno di questi sicuramente seguì il condottiero cartaginese quando decise di marciare su Roma. In seguito Annibale, ormai sconfitto dall'inerzia dei romani (la "strategia del logoramento" come la chiamavano nell'Urbe), abbandonò l'idea della conquista italiana e, dopo una parentesi sicula, scelse di tornarsene in Africa, più che altro sospinto dagli eserciti consolari. Così sicuramente gli si accodarono anche quei guerrieri sanniti che lo avevano seguito fin sotto le mura dell'Urbe, per sottrarsi a quella morte infamante che, inclemente, spettava ai traditori di Roma. Solo in questo modo la corazza sannita può esser finita tra le sabbie del deserto tunisino; in caso contrario sarebbe stato poco probabile che i Sanniti avrebbero permesso di catturare una preda bellica di tanto valore alle truppe annibaliche.

Anche se le gesta di Annibale in Italia risalgono alle prime decadi del III secolo a.C. e quindi ad un periodo di tempo di poco postumo agli avvenimenti delle Guerre Sannitiche, è probabile che la corazza, anch'essa risalente al III secolo a.C., facesse parte del corredo di un guerriero della "Legio Linteata" e che tale corredo sia stato conservato dai discendenti che l'avrebbero indossata soltanto quando gli avvenimenti fossero stati tali da far scendere in campo di nuovo i "Linteati".
Ed è certo che l'assedio sotto cui Annibale pensava di porre Roma doveva essere apparso a costoro come la miglior occasione per far splendere ancora le antiche armi.
Comunque, in qualsiasi modo siano andate le cose, il ritrovamento della corazza ci porta inevitabilmente a riconsiderare le descrizioni liviane sulla Legio Linteata.

La forma tipica della corazza sannitica è quella a tre dischi, solitamente in bronzo ma anche in ferro. Molte sono le rappresentazioni pittoriche dove il guerriero sannitico viene rappresentato con questo tipo di corazza che sembra essere divenuto, con il tempo, l'emblema dell'esercito regolare. Altre corazze come quelle a disco singolo, con raffigurazioni di animali fantastici o mitologici, completano le tipologie delle corazze finora rinvenute.
Interessante è la comparazione tra la raffigurazione pittorica del cratere a campana chiamato del Pittore della Libagione, rinvenuto a Capua (CE) in un corredo funebre della metà del IV secolo a.C., e una delle corazze a tre dischi rinvenute ad Alfedena (AQ) facente parte anch'essa di un corredo funebre databile intorno agli inizi del IV secolo a.C.
L'artista ha raffigurato sul vaso un guerriero sannita mentre infierisce su di un altro guerriero, forse un romano che indossa la classica pelle di lupo, con una dovizia di particolari impressionante. Il guerriero sannita indossa l'elmo "con i pannacchi" (come lo chiama Tito Livio), la corazza a tre dischi con sotto la tunica di lino, il cinturone metallico che, come si nota, è a corredo con la corazza e gli schinieri su ambedue gli stinchi. Come arma di attacco usa una scure ed ha già lanciato la "saunia", cioè la lancia dei sanniti, che si vede conficcata nella gamba sinistra del guerriero a terra. Come difesa indossa il classico scudo ovale sannita sul braccio sinistro la cui mano tiene stretta un'altra "saunia".
Il cavallo bianco che fa da sfondo al combattimento, con il morso e le redini ma senza sella, sembra essere ferito all'addome. Essendo rivolto dalla stessa parte del guerriero sannita probabilmente gli appartiene e quindi, in realtà, potrebbe trattarsi di un cavaliere che combatte a terra, nell'impeto della battaglia che ha visto ferito il suo cavallo.

 

Storia dei Sanniti e del Sannio - Davide Monaco - Isernia 2001